domenica 9 dicembre 2007

Prometeo: il Titano incatenato


Nelle prime epoche del mondo, quando Giove aveva spodestato il feroce Saturno (Urano) ed era diventato il dominatore dell'universo, i titani si erano ribellati al potere del re giovinetto.

Uno solo fra essi, Prometeo non aveva partecipato alla sommossa, e non per amore verso il suo nuovo re, ma perché egli poteva vedere le cose future e le presenti e sapeva che era inutile opporsi alla decisione ineluttabile del destino con una ribellione.
Prometeo era antiveggente e saggio e i suoi occhi sicuri, scintillanti, scrutatori, la bocca buona, quasi infantile, il corpo immane, gli davano l'aspetto di un generoso gigante dalla forza enorme abituata a dominare gli elementi.
Prometeo voleva bene agli uomini.

E l'uomo era allora misero, non aveva armi, né vestiti, viveva selvatico nelle boscaglie cibandosi di cruda selvaggina e di frutta; per vestirsi si copriva di foglie, per difendersi dalle belve non possedeva che sassi e rami nodosi.
Si riparava dai geli e dal sole in basse caverne profonde, in cui, simile a un rettile strisciante, la notte si rifugiava a dormire. E quando il sole era tramontato, se la luna non appariva a rischiarare le lunghe notti, una tenebra impenetrabile inghiottiva l'universo e gli uomini erano simili a miseri ciechi, tremanti, indifesi, in un mondo senza luce, colmo di ruggiti paurosi e lampeggiante degli occhi fosforescenti delle belve.

Prometeo, il buon gigante dagli occhi splendenti, non poté sopportare a lungo lo spettacolo di quella umanità dispersa e miserabile.
"Voglio aiutare gli uomini" disse "voglio che la loro vita diventi meno selvaggia, che essi imparino a difendersi dalle tigri e dei cinghiali, che coltivi no la terra, lavorino i metalli, si mutano di cibi caldi e arrossiti e nonni sanguinanti e con i resti di animali. Voglio donare all'uomo il fuoco!"
Sapeva, nella sua chiaroveggenza, che questo era contrario ai desideri di Giove sapeva che un dono simile fatto agli uomini sarebbe stato la sua rovina, ma Prometeo era generoso e risoluto, perciò, anche a sfidare l' ira del Nume onnipossente, pur di far del bene ai miseri mortali.

Salì dunque una se la sulla montagna radiosa, dove gli dei li banchetti amano felici, circondati dalle fiamme purpurei e del fuoco divino. Entrò nelle fucine risonanti di Vulcano, che nella sua corazza di bronzo battuta dalle fiamme, foggiava instancabilmente armi per gli eroi e monili per le belle dee dell'Olimpo.
"Sono venuto a portar di quest' anfora di vino etneo" disse Prometeo, sedendosi presso il fuoco. "bevi fabbro laborioso, questo di darà più forza che il tuo nettare! bevi!"
Prometeo aveva mescolato al vino molto succo di rossi papaveri, così che Vulcano in breve tempo si addormentò.
Il fuoco divino era lì, incustodito, così Prometeo ne imprigionò alcuni segni scintillanti nella ferula, il bastone cavo che gli aveva donato lo stesso vulcano.

La notte intanto era scesa, invadendo di paura con le sue ondate di tenebre il cuore degli uomini, e la ferula bronzea di Prometeo fiammeggiava nel buio come un astro staccatosi dal firmamento.

Prometeo accende un immenso rogo da lì fino al Cielo mentre le grida gioiose degli uomini scatenavano tutto l'universo è giungevano fino all'Olimpo.
Giove udì gli urli di vittoria, e corrugando la fronte, irritato, tonò: ordinò a un vulcano di apprestare egli stesso catene enormi ed anelli di bronzo per incatenare Prometeo ad una roccia.
Intanto gli uomini dell'opera del generoso titano, imparavano a riscaldarsi, a cuocere le carni, a forgiarsi le armi, a costruire le case dove potere a sera riposare, a fabbricare le navi, per solcare senza pericolo il mare infido.

Gli uomini furono così felici di cui i doni, che pieni di gioia per la conquistata vittoria, si credettero diventati simili agli dei. Questa presunzione aumentò il furore di Giove; e Vulcano sia pure a malincuore, poiché voleva bene al titano dagli occhi sereni, dovette impadronirsi, per ordine del Nume, del corpo del gigante e legarlo alle rupi inaccessibili del monte Caucaso.
Aiutato dai Ciclopi, gli stringeva ai polsi le catene.
"Non sai che ora" - diceva vulcano - "chissà per quanti anni dovrai restare incatenato questa nube nevosa e non avrai più nessuna voce umana e nessun viso di controllerà su questa cima selvaggia? Il tuo corpo sarà disseccato dal sole, i tuoi occhi diverranno quasi ciechi, abbagliati dalle nevi e flagellati dal vento, ma poichè sei nato immortale, non potranno chiudersi mai nel riposo del sonno eterno. E inutilmente la notte pietosa cercherà di coprirti col suo mantello chiaro di stelle: tu resterai immobile, insonne, sanguinante su questa rupe, e non potrai piegare mai le ginocchia dolenti sulla terra.Capisci che rovina è la tua, mio povero Prometeo?

Ogni mattina un' aquila gigantesca calava dalle cime nevose, si accostava al corpo del gigante livido e immoto, gli squarciava con un colpo del becco ricurvo il torace e si cibava del suo fegato sanguinante. Quando tornava la notte, il fegato, miracolosamente, rinasceva di nuovo, e al sorgere del sole, l' aquila affamata si dissetava al suo sangue e divorava il fegato del martire gigante. Il volto di Prometeo diventava bianco di dolore, la sua bocca lanciava urli inumani e inutilmente le rosee ninfe cercavano di far salire fino a lui il loro canto dolcissimo per consolarlo.
Il martirio era inesorabile.

Passarono così in quel martirio trent'anni, finché Giove ebbe pietà di quel corpo roso dalle intemperie, di quegli occhi abbacinati dalle nevi, del petto squarciato, il cui sangue rigava in eterno la roccia. E liberò il gigante, accogliendolo, immortale, nelle felici praterie dei Campi Elisi.

E Prometeo infatti vive ancora.
E ogni volta che si compie fra gli uomini un'impresa ardita, ogni volta che un martire cade per la fede e per la gloria, lo spirito immortale di Prometeo alita attorno agli eroi; e il fuoco divino che il gigante ha rapita al Cielo, infiamma le anime generose degli uomini. Così Prometeo ha insegnato agli uomini oltre alla civiltà, anche ad essere degni della propria origine divina e fieri dell' anima immortale.

giovedì 28 giugno 2007

Minosse

Minosse, figlio di Licasto e di Itona, potentissimo re dell' isola di Creta, sposò Pasifae e da lei ebbe sei figli tra cui Arianna, Fedra, Androgeo e Glauco.
Promise a Poseidone di sacrificare tutto quello che dal mare fosse giunto a Creta, ma non volle immolare un meraviglioso toro bianco che Posidone stesso aveva inviato.
Afrodite, per vendicarsi di Pasifae, moglie di Minosse, che non compiva sacrifici in suo onore, le ispirò un' insana passione per quel toro bianco, da cui nacque il Minotauro.

L' audacia di Icaro

Quando passavano i due uomini alati sul mare, Dedalo e Icaro, gli uccelli fugggivano spaventati.
Costeggiavano le isole e i pastori alzavano gli occhi stupiti, credendo a visioni fantastiche.
Icaro udiva le grida di stupore dei contadini, vedeva gli uomini sbalorditi e si sentiva inorgoglire sempre di più, gli pareva quasi di essere un dio, così alto nel cielo, così libero e veloce tra le nuvole.
Doveva essere ancora più bello avvicinarsi al Cielo, attraversare le eccelse vie delle stelle, pensava Icaro.
"Tentare un volo audace vicino al Sole, per guardare da vicino l' immenso astro luminoso!" Pensava Icaro.
Quasi senza accorgersene, trascinato dal suo stesso desiderio, si allontanò, a poco a poco dalla scia tacciatagli dal padre Dedalo, che lo precedeva.
Si portò, in rapida ascesa, verso la regione alta del firmamento, ma il calore ardente del sole rammollì presto la cera profumata che faceva aderire alle sue spalle le ali, sciolse le piume dell' armatura che le teneva insieme e le fece precipitare nelle onde del mare sottostante.
Icaro cercò invano di rimanere sospeso nell' aria battendo affannosamente le braccia. Cadde nel mare e la chiuma lo ricoprì.

Da allora quel mare si chiamò Mar Icaro.
Dedalo accortosi tardi dell' imprudenza del figlio, non potè far nulla per evitare la tragica morte nell' Oceano e dovette proseguire il volo, finchè arrivò a Cuma.
Qui costruì un tempio magnifico dedicato ad Apollo e vi consacrò le sue ali prodigiose.
L' angoscia per la morte del figlio, non gli permise altro che svolpire su tutte le porte del tempio la storia di Minosse e della sua discendenza, creando una fantastica, mirabile oepra d' arte.
ma quando il povero pare giunse a scolpire l' episodio della sua fuga dal labirinto e la morte di Icaro, le mani gli tremarono di commozione, il bulino gli cadde a terra e l' opera rimase incompiuta.

sabato 9 giugno 2007

La nascita di Afrodite ( Venere)


La dea della bellezza, dell' amore e dei vincoli coniugali.
Secondo Omero nacque da Zeus e da Dione, secondo altri da Urano e Gea, secondo Esiodo invece nacque dalla spuma del mare, e una conchiglia, spinta da Zefiro, la portò sulla spiaggia dell' isola di Cipro, qui fu ricevuta dalle Ore e portata sull' Olimpo.
Tutti gli dei rimasero stupiti dell superba bellezza di Afrodite, e persino Athena e Artemide ne subirono il fascino.
Zeus la concesse in moglie a Efesto per ricompensarlo di avergli fornito i fulmini nella guerra contro i Giganti.
Compagni di Afrodite erano le Càriti, il Riso, gli Amori, i Giuochi, e di tutto il corteggio ella si serviva per conquistare il cuore degli dei e degli uomini.
Ebbe un culto diffusissimo, e fu onorata anche come protettrice della navigazione: le città che maggiormente la veneravano furono Cipro, Citera, Corinto e Argo.
Tra le piante le erano sacre il mirto, la rosa il melo e il papavero; tra gli animali il passero, la colomba, la lepre, il capro, il cigno, la tartaruga, il delfino.
Ebbe numerosissimi soprannomi, tra i quali i più noti sono: Areia( guerriera), Ciprigna, Cipria, Citerea, Pontia ( marina), Anadiomene ( nata dalla spuma del mare), Euploia( della buona navigazione), Acidalia, Ericina, Anzeia( fiorita), Pandemia ( di tutto il popolo), Idalia, Pafia, Amatusia e Urania.
I romani la identificarono con Venere.

martedì 29 maggio 2007

Urano : la più antica divinità greca. (Saturno per i Romani)


Urano, Crono e Zeus.

Urano, che i Romani identificavano con Saturno, è la più antica divinità greca;
figlio e marito di Gea, fu il primo dominatore dell' universo.
Da Urano e Gea nacquero i dodici Titani, i tre Ciclopi e i tre Centimani.
I dodici Titani erano: Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto, Crono, Temi, Rea, Mnemosine, Febe, Tea e Teti.
Disgustato dall' aspetto dei Centimani e dei Ciclopi, Urano li imprigionò e li gettò nel Tartaro, profonda voragine distante dall' inferno quanto l' inferno era distante dal cielo;
allora Gea adirata, convinse i Titani a detronizzare il padre: Crono il più giovane assalì il genitore, lo mutilò e s' impadronì del
potere.
In seguito sposò sua sorella Rea e procreò numerosi figli che però, per evitare la predizione secondo la quale sarebbe stato detronizzato da uno di essi, divorava appena vedevano la luce. Solamente Zeus, l' ultimo nato, scampò alle fauci paterne, e fu segretamente allevato dalle ninfe Adrasteia e Ida, figlie di Melisseo , re di Creta, le quali lo fecero allattare dalla capra Amaltea.
Crono credette di ingoiare il suo ultimo figlio, ma in realtà ingoiò una pietra.
Una volta adulto Zeus, compendosi la predizione, pensò di detronizzare il padre: salì in cielo e porse a Crono una bevanda speciale che gli fece vomitare i figli precedentemente ingoiati, e la pietra che lui credette fosse l' ultimo figlio. Così Zeus con l' aiuto dei fratelli e dei Titani, mosse guerra a Crono, e riuscì dopo dieci anni a detronizzarlo. A guerra finita Zeus rinchiuse nel Tartaro anche i Titani che infine si erano schierati a fianco di Crono.
Tuttavia il poter di Zeus non era ancora sicuro: Gea era adirata per il trattamento che aveva riservato ai Titani, così partorì Tifeo, mostruoso gigante con cento teste di drago, personificante l' eruzione dei vulcani o il furioso vento del sud. Istigato dalla madre assalì l' Olimpo, prese Zeus e lo imprigionò in un antro della Cilicia, ma Ermes liberò il re degli dei, il quale riscì a sopprimere il terribile gigante scagliandoli contro la Sicilia, o secondo altri l' isola di Ischia.
Divenuto invincibile signore del creato, Zeus divorò la sua prima moglie Metis, per evitare si compisse la predizione di Gea, secondo cui Metis avrebbe dato alla luce un figlio di tale potenza e sapienza che avrebbe detronizzato Zeus, poi si unì in matrimonio alla sorella Era. Divise con gli altri fratelli il dominio del regno: assegnò il regno delle acque a Poseidone e l' inferno ad Ades, per sè pretese oltre il dominio del cielo anche la supremazia sugli altri dei, i quali dovevano piegarsi alla sua volontà.


La dea Atena o Minerva.


Atene capitale della Grecia prende il suo nome della dea Athena, identificata dai Romani con Minerva.

Ma chi era la dea Athena?

Era la dea della sapienza e della guerra ordinata, contrapposta ad Ares personificazione della guerra indiscriminata e violenta , protettrice di tutte le arti e dei lavori femminili.
Nacque dalla testa di Zeus dopo che ebbe inghiottito la sua prima moglie Metis, per evitare che si compisse una predizione di Gea secondo la quale avrebbe dato alla luce un figlio di tale sapienza e potenza che avrebbe sbalzato dal trono Zeus.
Colpito da una forte emicrania Zeus mandò a chiamare Efèsto (o Vulcano ) affinchè gli spaccasse la testa in due: ne uscì una fanciulla armata, bella dagli occhi azzurri, era la dea Athena.
Athena contese il titolo di bellissima tra le dee assieme ad Era ed Afrodite, il conosciuto pomo della discordia, e poichè non fù la favorita da Paride, durante la guerra di Troia si schierò a fianco dei Greci che aiutò in ogni ciconstanza. Ha protetto e assistito Ulisse in tutte le sue peripezie, fù lei che chiese a Zeus il ritorno in patria dell' eroe trattenuto da Calipso per sette anni, promettendogli l' immortalità se l' avesse sposata. Ebbe una contesa con Poseidone dio del mare ( identificato dai romani con Nettuno ), fratello minore di Zeus, per chi dovesse dare il nome alla capitale dell' Attica: ciascuno dei due numi rivendicava a sè quell' onore; infatti anche Poseidone durante la guerra di Troia si era schierato con i Greci e combatteva con loro sotto le mura di Troia, in seguito al defraudamento subito da parte del re Laomedonte dopo la costruzione delle mura di codesta città.
Alla fine fù deciso che tra i due avrebbe dato il nome alla città chi avesse donato la cosa più utile ai mortali: Poseidone con un colpo di tridente fece balzare dal suolo il cavallo, Athena fece nascere l' ulivo. Il dono della dea fu considerato più utile, e la città fu chiamata Atene.

lunedì 28 maggio 2007

Come nasce il cipresso.


Ciparisso era un principe leggiadro e di eccezionale bellezza, ed era assai caro al dio del sole Apollo, il quale gli aveva insegnato la musica, il maneggio dell' arco, e gli aveva dato in custodia un animale sacro: un cervo che non aveva pari al mondo.
Ciparisso era felice di questo dono e passava l' intero giorno col suo cervo dalle corna d' oro massiccio; gli aveva messo intorno al collo una ricca collana di rubini, un ornamento di cuoio con fibbie d' argento, e così andava per le case come un animale domestico, carezzato da tutti e nutrito dalle fanciulle con ciuffi d' erba profumati.
Nessuno osava far del male al meraviglioso animale del principe Ciparisso, sacro alle ninfe dei boschi.
Un giorno montato in groppa al suo cervo, Ciparisso correva attraverso il bosco;
fermato in un prato erboso aveva una gran voglia di cacciare tortore e gazze avvistaste durante le corsa, così lasciò il cervo a brucare sul prato ed entrò nel bosco con arco e frecce.
Mentre saettava le tortore vide tra un cespuglio una volpe, la inseguì tra i tronchi e i cespugli, ma ben presto la perdette di vista. Continuò a cercarla a lungo nel folto bosco, ed a ogni rumore puntava l' arco pronto a scoccare la freccia. Ad un certo punto vide qualcosa muoversi dietro una siepe, pensava di averla raggiunta, impugnò un dardo e lo scagliò verso la preda; ma un bramito altissimo risuonò sotto gli alberi, un grido che parve fendere il cuore del principe: era il suo amatissimo cervo.
Ciparisso si sentì morire, ebbe l' impressione che la freccia l' avesse ricevuta lui nel mezzo del petto, muto e senza lacrime raggiunse il cervo che ormai ansimando rovesciò la testa dalle corna d' oro e morì. Il giovane principe in un muto e impenetrabile dolore non chiamò Apollo, ma rimase a piangere sconsolato vicino al suo sacro cervo.
Apollo lo vide dall' alto del cielo e vide anche il suo cervo disteso sull' erba, allora scese per chiedere come era avvenuta una tale disgrazia; Ciparissò gli raccontò l' accaduto ma non volle alcun conforto, voleva solo stare solo a piangere perché ormai l' unica cosa che gli alleviava il dolore erano le lacrime.
Passava i suoi giorni senza toccare cibo, senza vedere nessuno, vagava per la campagna piangendo.
Un giorno Apollo scese a trovarlo mentre piangeva seduto nel bosco, e gli chiese cosa poteva fare per alleviare il suo dolore, l' unica cosa che chiedeva Ciparisso era quella di essere immortale per poter piangere per sempre il suo cervo.
Così Apollo toccato da tanta pietà mise la mano sulla fronte del giovane principe, e alzatolo in piedi lo avvolse stretto nel suo mantello verde, Ciparisso con un brivido di freddo guardò verso il cielo, le lacrime che scorrevano incessanti dai suoi occhi divennero piccole foglie verde cupo, e in breve tempo coprirono il mantello e il viso del giovane, i piedi si indurirono e si' affondarono nel terreno, e lì dove piangeva il bel Ciparisso, svettò nell' aria un elegante cipresso.